Ogni volta che lasciamo andare via da noi un sentimento, una persona, un luogo, un oggetto, che ci ricorda uno scambio, un pezzo di vita, un momento importante, inizialmente ci pare di stare lasciando una parte di noi stessi; ci richiede sforzo, fatica.
In realtà è proprio così, ci stiamo separando da noi stessi per come eravamo in quel tempo, in quello spazio, con quella persona o attraverso quell’oggetto, e a cui siamo legati, ma che in realtà non siamo già più, o stiamo lavorando per non esserlo. Se abbiamo deciso di separarcene significa che lo sforzo è necessario per poter proseguire sul nostro cammino.
Stamattina, dopo aver salutato Nadja, Felipe, Airyn, Lua e gli animali e le piante del loro terreno, mentre camminavo verso la macchina che avrei guidato per andarmene, ho pianto. Ho lasciato che le lacrime bagnassero le mie guance e che la tristezza che provavo nel lasciare andare i mesi vissuti lì toccasse la terra su cui camminavo; quelle lacrime mi hanno liberata da tutto ciò che di quella terra non volevo portarmi sulle spalle nel mio futuro viaggio: i momenti di paura, rabbia, angoscia, diffidenza, giudizio provate, le ho restituiti alla terra, perché fossero ritrasformati.
Al contempo ci sono moltissimi regali che Odemira ha lasciato nel mio cuore, e che voglio conservare come memoria sotto pelle, come sensazioni da custodire come armi magiche per ricordarmi tutti i giorni di quanto la vita può essere vissuta in ogni momento come un dono:
- Il buongiorno che il mulo Ciacabum mi dava spesso, strofinando il suo musone contro la mia spalla, in segno di saluto e affetto
- La gara di canto dei galli, che ritmicamente si susseguivano in centinaia di “chicchirichì” carichi di energia
- La solidità delle centenarie querce da sughero, donatrici di ombra, pace e tranquillità, e sostenitrici di altalene
- Quel pomeriggio che, per la prima volta, io e Federico abbiamo messo mano alla casetta dei bimbi, con la visione che potesse essere una base incantevole per i loro giochi
- Quel viaggio fatto in venti persone nel cassone del pick-up, verso la terra che Nadja voleva mostrarci, tra boschi e pascoli, e la giornata passata lì a immaginarci come costruire un sogno, in quello che ci sembrava un piccolo paradiso
- Andare al trono, il gabinetto a secco, e stare seduti lì, in quella strana sensazione di essere visibile a tutti in un momento intimo, ma al contempo godere dello stupendo paesaggio dell’intera radura.
- Le corse dei cavalli dalla collina, la forza e l’impeto del selvaggio
- La fatica e il lavoro di squadra nel caricare l’acqua del fiume nella tanica da mille litri, e la catena umana di mani che si passavano secchielli e bottiglioni che arrivavano fino alla cisterna, che piano piano veniva riempita
- Il primo fuoco serale tutti insieme, davanti al Dom di Nadja
- Quel pomeriggio passato con i bimbi in cima alla collina a leggere il libro Edison, e di due topolini avventurosi in cerca di una scoperta sensazionale
- Le mattine trascorse a raccogliere erba per i conigli, cercando di indovinare quale specie di pianta fosse la loro preferita, per poi verificarlo guardandoli mangiare (adorano la menta, il trifoglio e il tarassaco!)
- L’elicriso, la cynara, la lavandula, la digitale purpurea, e i mille fiori che hanno condiviso la terra con noi, deliziandoci con i loro colori e profumi
- Il gusto di mangiare la prima piadina cotta nel forno in terra cruda, dopo averlo aggiustato
- Le meditazioni della mia amica Francesca seguite su zoom dalla cima della collina, unico punto in cui la ricezione era abbastanza buona per avere connessione internet
- Trovarsi ad ammirare meravigliati l’immenso cielo stellato dopo essere usciti di malavoglia dal camper per il bisogno impellente di fare pipì
- La tranquillità e il silenzio dell’unico pomeriggio passato da sola nella radura, mentre tutti erano al lago
- La prima gita al mare dopo la quarantena, rigorosamente tutti insieme
- Il senso di protezione di Vicky per i bambini, inseguendo e cacciando le oche quando si avvicinavano troppo con aria aggressiva
- L’inseguimento disperato di Tomas, seguito a sua volta da Vicky e dal gruppo dei bambini, per catturare il gallo che Nadja aveva deciso di uccidere e della cui esecuzione si era fatto carico Tomas, non aspettandosi le abilità di fuga dell’astuto pennuto
- I momenti prima della cena passati con le altre donne del gruppo a raccontarci e confidarci, come solo le femmine sanno fare
- il lavoro comunitario nell’orto, faticando con il sorriso
- i tuffi acrobatici di Ayrin al lago
- la prima volta che ho donato il mio sangue mestruale alla terra, vicino alle radici di una quercia secolare
- la strana sensazione di addormentarsi con il canto dell’usignolo, talentuoso artista notturno
Ora siamo già lontano, nella terra che sarà la nostra nuova casa, chissà per quanto; in un grande campo ai piedi di una collina tappezzata di alberi da frutto abbandonati e arbusti spontanei; l’avena selvatica, dorata e secca, ricopre il suolo argilloso e rossastro, e danza con il soffiare del vento.
In ogni istante si ricomincia, e qui noi ricominciamo il nostro presente.
I bambini sono già all’opera per progettare la loro base, una capanna sotto gli alberi (non ditelo a nessuno, mi hanno detto che deve essere un segreto!), Ines lavora con la macchina da cucire, creando con la sua magica immaginazione vestitini e magliette per mamme e bambini, In e Giorgio sistemano la loro roulotte e montano la tenda esterna, rendendo la loro casa calda e accogliente, Tomas e Jonny organizzano la distribuzione dell’acqua, che qui abbiamo a disposizione in loco, grazie a un pozzo e a una pompa collegata alle tubature dell’acqua agricola.
E io scrivo, lasciando che le parole fluiscano e mi aiutino a radicarmi al nostro nuovo presente.